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Tag: #cooperazione

Una nuova casa per Feri, Gregorius, Marcelus, Petrus e Hieronimus

Feri, Gregorius, Marcelus, Petrus e Hieronimus: sono i nomi dei cinque beneficiari bisognosi ed appartenenti a famiglie povere aiutati grazie al MicroProgetto, appena concluso,  finanziato da Caritas Italiana e in collaborazione con i Missionari Camilliani a Maumere (Isola di Flores, Indonesia) per la promozione dell’inclusione sociale delle persone con disabilità mentale.

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Progetto Latte Sano: aggiornamento dall’Africa Subsahariana

A Bagrè, in Burkina Faso, continua il progetto “Latte Sano” nel rispetto delle norme di sicurezza imposte dall’emergenza Covid-19. Il progetto, grazie al finanziamento della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), prevede la costruzione di una stalla per sessanta mucche da latte e la realizzazione di una centrale del latte, con la conseguente produzione e distribuzione di latte fresco e prodotti caseari.

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Covid-19: quali criticità nel continente africano?

Il virus Covid-19 ha ormai raggiunto tutti gli Stati africani, ma resta ancora l’interrogativo su come l’epidemia si diffonderà nel continente. Sono ancora troppo pochi i dati a disposizione e troppi i fattori che incidono sulla sua evoluzione: climatici, genetici, sociologici e demografici.
L’organizzazione Mondiale per la Sanità (OMS) ha dichiarato che i Paesi del continente ad oggi – 5 aprile – più colpiti sono quelli all’estremità: il Sudafrica con (1585 casi e 9 decessi), l’Egitto (1173 casi e 78 decessi), l’Algeria (1320 casi e 152 decessi).

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L’emozione della missione: Mariella

Mariella, ci racconti come ti sei avvicinata al mondo della cooperazione internazionale e del terzo settore?

Al termine dei miei studi superiori in Sardegna, mi sono trasferita a Forlì per continuare la mia formazione. Sono sempre stata interessata a ciò che accadeva nel panorama internazionale e ho scelto così di frequentare il corso di laurea in Scienze Internazionali e Diplomatiche. Durante gli ultimi anni del mio percorso universitario mi sono specializzata nel tema dei diritti umani, discutendo una tesi sulla diversa reazione della comunità internazionale rispetto ai casi del Kossovo e della Cecenia.
Successivamente, mi sono trasferita a Roma per frequentare un master in Tutela internazionale dei diritti umani, svolgendo un periodo di stage presso il Ministero degli Affari Esteri. Durante questa esperienza mi sono avvicinata al mondo delle Organizzazioni Non Governative e vedendone l’operato il mio interesse per il mondo del terzo settore è diventato più forte.
In seguito, ho conseguito un altro master in Project Manager della cooperazione internazionale e durante l’esperienza di stage sono entrata in contatto con Salute e Sviluppo, dove – dopo una parentesi professionale in Spagna – ho iniziato a lavorare stabilmente.

Di cosa ti occupi a Salute e Sviluppo?

Mi sono fin da subito occupata di progettazione e gestione dei progetti, dal 2013 mi occupo anche dell’amministrazione generale di SeS.

Cosa ti è piaciuto di Salute e Sviluppo come organizzazione?

Salute e Sviluppo mi è piaciuta subito sia per l’ambiente lavorativo stimolante e socievole nell’ufficio a Roma, sia per la tipologia di progetti.. sono continuativi nel tempo.
Spesso, una volta ultimato un progetto, manca un controllo successivo sul territorio. La sostenibilità nel tempo dei progetti di Salute e Sviluppo è invece garantita dal fatto che si avvale del supporto e affiancamento dei Camilliani nei vari paesi d’intervento, che – a prescindere dalla durata del progetto – saranno sempre presenti sul territorio per la loro missione, ovvero il sostegno sanitario alle fasce più vulnerabili della popolazione. Con SeS riusciamo a migliorare i loro servizi ospedalieri o costruirne dei nuovi.
Inoltre, apprezzo fortemente lo scambio multiculturale e inter-religioso. Ho osservato durante le missioni come al fianco dei missionari lavorino persone che spesso professano una religione differente. Vi è molto rispetto e stima reciproca, oltre che piena collaborazione.

Cosa ti ha spinta a scegliere di partire per le varie missioni?

Come detto prima, la mia passione per il terzo settore nasce durante il mio percorso universitario, dove mi sono avvicinata a materie che si occupavano di diritti umani. Il passaggio poi è stato naturale: dopo essermi occupata di difesa dei diritti umani, di burocrazia ministeriale, ho capito che avevo bisogno di qualcosa di più. Sentivo l’esigenza di vedere concretamente il lavoro sul campo, conoscere i beneficiari, vedere l’attivazione dei servizi. Posso sintetizzare che i miei occhi avevano bisogno di vedere realizzato ciò che progettavo sulla carta.

Cosa ti emoziona del tuo lavoro?

Mi emoziona vedere il nascere e il concludersi di qualcosa: poter partire in loco e vedere uno spazio in cui non vi è nulla… ritornarci e poterne osservare la trasformazione. Ad esempio, in una delle mie prime missioni, in Benin, mi sono emozionata vedendo – dopo più di un anno dall’inizio del progetto – come un terreno arido e isolato si fosse trasformato in un ospedale.. come funzionasse correttamente e fosse diventato anche centro di aggregazione.
E’ stupendo riscontrare come i progetti di Salute e Sviluppo, grandi o piccoli che siano, impattino concretamente sulla vita dei beneficiari, trasformandola e migliorandola.

Parti per Paesi in cui le condizioni che trovi non sono delle più facili.. E’ faticoso per te?

Sicuramente occorre avere un grande spirito di adattamento. Serve sia per le condizioni di vita quotidiana, sia per le situazioni di solitudine che talvolta bisogna affrontare.
Mi spiego meglio.. quando si parte in missione non si trascorre la maggior parte del tempo in una grande città, dove si ha modo di incontrare cooperanti o persone che svolgono lavori in diversi settori provenienti da Paesi di tutto il mondo. La permanenza nella capitale dura di solito solo qualche giorno. È un momento di passaggio prima di immergermi a 360 gradi nel vero contesto locale.
I nostri progetti si trovano soprattutto nelle aree più fragili e isolate di un Paese.. di conseguenza ci si ritrova in villaggi in cui difficilmente vi sono altri “espatriati” e/o non vi è la sicurezza per poter uscire da soli.

Qual è l’aspetto che ti piace delle missioni?

Senza dubbio l’incontro con la popolazione locale. Nelle grandi città sono abituati all’arrivo e alla presenza di personale straniero, vi è più movimento. Nei piccoli villaggi, che non hanno relazioni con l’esterno, le persone sono accoglienti, gioiose. i bambini sono curiosi, ospitali, vogliono toccarti, chiacchierare e giocare con te.. tutti si salutano, ma soprattutto si sente un forte spirito di comunità in cui tutti si conoscono. È veramente sorprendente sentire questo calore umano.

Qual è il Paese in cui hai trovato difficoltà?

Credo la Repubblica Centroafricana. È uno dei Paesi più poveri al mondo, in cui la difficoltà principale è la mancanza di mezzi per poter lavorare, ma è anche il Paese che più mi è rimasto nel cuore.
Mentre in Burkina Faso oggi vi è un grosso problema di sicurezza. Rispetto alle mie prime missioni, dal 2010 ad oggi ho visto un notevole cambiamento nel Paese: da veramente tranquillo a piuttosto pericoloso per via degli attentati terroristici che dal 2016 colpiscono talvolta la capitale e soprattutto la zona nord ed est della nazione.

Per quanto riguarda gli altri continenti?

Ho svolto missioni in Perù e in Vietnam.
In entrambi i casi mi ha impressionato la stretta convivenza tra standard di vita elevati e la povertà anche più evidente rispetto ad alcuni Paesi dell’Africa. Ad esempio, a Lima, in Perù, questa diversità risalta in maniera prepotente: da un angolo all’altro dello stesso quartiere lo scenario che si incontra cambia completamente.
Anche l’esperienza in Vietnam è stata forte: si passa da metropoli sviluppate e turistiche come Hoc Chi Minh a villaggi nel sud del Paese in cui la povertà è estremamente elevata.

 

 

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I giovani del centro Snehagram in viaggio per il futuro!

Siamo in India. In questo Paese si contano circa 2,1 milioni di persone che convivono con HIV/AIDS e 4 milioni di bambini/ragazzi sono colpiti direttamente o indirettamente da questa malattia (dati UNAIDS 2017). Ad aggravare la situazione si aggiunge la stigmatizzazione delle persone sieropositive nella società: una barriera tra gli individui e la società che impossibilita l’entrata nel mondo del lavoro e nella società stessa.

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